Le autorità libiche hanno arrestato una cinquantina di
persone, accusate di essere coinvolte nell'assalto al consolato statunitense a
Bengasi, dove è morto l'ambasciatore americano Christopher Stevens e altri tre
funzionari. Lo ha annunciato il presidente del Parlamento libico, Mohammed
al-Megaryef, in un'intervista alla Cbs. Al-Megaryef ha detto che un piccolo
gruppo proviene dal Mali e dall'Algeria. Intanto gli Usa hanno ordinato
l'evacuazione delle ambasciate. Il segretario alla Difesa americano, Leon Panetta: «Siamo pronti a reagire».
Al Magarief. «Non c'è dubbio che l'attacco di Bengasi sia stato pianificato da stranieri entrati nel paese qualche mese fa», ha osservato al Magarief. Secondo il presidente del Parlamento libico, l'Fbi dovrebbe stare fuori dal paese «per un pò di tempo. Faremo quello che dobbiamo fare per conto nostro. Qualsiasi azione affrettata non sarebbe la benvenuta».
A Tunisi. Sono un centinaio le persone arrestate, a Tunisi, per i disordini di venerdì scorso davanti all'ambasciata americana, che hanno provocato la morte di quattro persone e decine di feriti. Tra i fermati anche Mohamed Bakti, il primo leader del movimento salafita tunisino a cadere nella rete degli investigatori. Gli arresti sono stati eseguiti sia durante la manifestazione, che ieri e nelle prime ore di oggi. Le accuse riguardano, oltre all'assalto all'ambasciata statunitense, anche il saccheggio che ha subito la scuola americana del vicino quartiere di L'Aouina. La maggior parte delle persone arrestate risiedono nelle zone di La Manouba e di L'Aouina, entrambe nell'area della «Grand Tunis».
Ambasciate Usa evacuate. Gli Stati Uniti, intanto, evacuano le ambasciate di Tunisi e Khartoum. E ai cittadini americani chiedono di lasciare la Tunisia su voli di linea e comunque sconsigliano di viaggiare in quel Paese e in Sudan. 128 americani, tra diplomatici e personale in servizio nell'ambasciata di Tunisi e loro familiari, hanno lasciato questa mattina il Paese.
Panetta. Le proteste nel mondo musulmano continueranno nei prossimi giorni ma sembrano stabilizzarsi, ha detto il segretario alla Difesa americano, Leon Panetta, sottolineando che il Pentagono ha «dispiegato forze in diverse aree della regione per essere pronto a rispondere a qualsiasi richiesta ed essere in grado di proteggere il personale e le proprietà americane». Senza fornire dettagli sulle indiscrezioni relative allo spostamento di ulteriori forze nell'area, Panetta dice: «Il nostro approccio è quello di non fare nulla fino a che il Dipartimento di Stato non lo chieda. Ma ritengo che dobbiamo restare vigili perché sospetto che le dimostrazioni continueranno nei prossimi giorni, se non più a lungo». In merito alla decisione del Sudan di non accettare i marines, Panetta replica che è nei diritti dei singoli paesi. «Ritengo - dice - che credano di poter offrire una sicurezza sufficiente per proteggere le nostre ambasciate e il nostro personale».
I timori di Obama. L'amministrazione americana - secondo indiscrezioni riportate dalla stampa - ritiene che «le proteste violente nei paesi musulmani possano presagire a una crisi prolungata con conseguenze diplomatiche e politiche imprevedibili». La tensione si evince dall'allerta del Dipartimento di Stato.
Per Obama le proteste sono la più seria crisi di politica estera della stagione elettorale e secondo gli analisti alimenteranno le domande sui suoi principi politici in Medio Oriente, agitando dubbi sulla gestione della primavera araba e sull'adeguatezza della risposta dell'amministrazione ai timori sulla sicurezza. Secondo alcuni osservatori Obama non è riuscito a trovare il giusto equilibrio fra appoggiare la democrazia nel mondo musulmano e salvaguardare gli interessi americani in una regione strategica, il Medio oriente, dove i governi autoritari sono stati sostituiti da partiti pro-Islam, alcuni dei quali nemici degli Stati Uniti.
L'amministrazione respinge le critiche, mettendo in evidenza come Obama sia riuscito a migliorare la posizione americana nel mondo musulmano. «Abbiamo compiuto molta strada nel dimostrare che gli Stati Uniti non sono in guerra con l'Islam» afferma Benjamin Rhodes, consigliere per la sicurezza nazionale. «È chiaro che restano sfide in parte del mondo arabo».
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